“La malattia è il lato oscuro della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese” scrive Susan Sontag, scrittrice e saggista statunitense, nel suo libro Malattia come metafora (Einaudi, Torino, 1979).
Un “paese” dove per chi vi transita o vi sosta si possono aprire scenari molto diversi: c’è chi pensa a tornare come prima; chi si concentra sul desiderio di continuare a vivere, nonostante la malattia; chi, attraversandola, vivendola, ne trae insegnamenti di vita; chi ne viene travolto; chi si inasprisce a causa della sofferenza e del dolore.
Non c’è naturalmente una “ricetta” o una modalità migliore o peggiore di un’altra: è un vissuto soggettivo. Ed altrettanto, entra nella dimensione del vissuto soggettivo il rapporto che si instaura tra il paziente e il medico, ciò che si percepisce, ciò che si sente nello scambio che nasce dall’incontro tra due soggetti.
In quel “paese”, citato sopra, medici e pazienti di “nazionalità” diverse si incontrano. A seconda di dove scelgono di collocarsi all’interno di quel territorio e di quella interazione e a seconda di quale narrazione si crea nello scambio tra curato e curante, si possono instaurare rapporti più o meno partecipati, più o meno collaborativi, più o meno efficaci.
Malattia come metafora
Susan Sontag
Einaudi, Torino, 1979