Un giorno, un amico indimenticabile, un medico, mi regalò un “libriccino tragico e meraviglioso”: così lui lo definì.
Vite di medici e di pazienti che si incrociano, dove nella relazione di cura si mescolano intrecci di formalità e autorevolezza professionale, di compassione, di cinismo, di distacco, di emotività intensa, di angoscia, di dolore, di sofferenza, di successo umano e di insuccesso professionale e molto altro ancora.
“Cosa sognano i pesci rossi” (di Marco Venturino) è il titolo di questo libro, da quale ho tratto alcuni brani, che spero possano stimolare qualche riflessione in previsione anche degli incontri futuri che saranno focalizzati, tra gli altri temi, sulla comunicazione tra il medico e il paziente:
“… ma perché hai studiato medicina? Potrebbe sinceramente rispondere: perché volevo guarire la gente, gli piace la vita e la gente è vita. Gli piace ascoltare la gente ed è sempre disponibile per tutti. Ogni malato che non guarisce non è una sconfitta personale, ma è una sconfitta della vita e la vita non può essere sconfitta”.
“Quando uno, al di fuori di questa specie di roulette russa che è la malattia, vive la sua vita normalmente senza ospedali, ambulatori e affini è portato a considerare i medici e gli operatori sanitari in genere come una sorta di iniziati, prescelti dal destino e votati a una causa. Questo finché si è fuori.
(…) Certo, fra i medici c’è il professionista che lavora bene e c’è quello che tira a campare, c’è quello competente e preparato e c’è il millantatore disonesto, ma esattamente come dappertutto. Fare il medico è un lavoro come un altro. E questa è una verità che scopri quando da paziente diventi un caso che non va come deve andare, che si complica, uno che non dà soddisfazioni, uno che crea problemi.
(…) “Il trial! La parola magica in grado di riunire i più acerrimi antagonisti come guerrieri intorno a un totem sacrificale. Il trial: cioè lo studio scientifico il cui scopo dovrebbe essere la ricerca, speculativa, rigorosamente formale o banalmente pratica che sia, ma chiaramente votata a trovare migliorie le quali, nella scienza medica, dovrebbero risolversi in beneficio per i pazienti e, in realtà, assai spesso sono solo un obiettivo per la propria vanità.
(…) Spesso si sostiene che il distacco, il cinismo oserei dire con cui gli operatori sanitari trattano la loro “merce” è l’inevitabile condizione perché possano svolgere in maniera precisa il loro lavoro. I più benevoli correggono questa affermazione aggiungendo che è anche l’unica condizione perché possano sopravvivere senza essere schiacciati dal peso della sofferenza altrui. O forse è solo una scusa. Forse nessuna delle due cose”.